Non sarò ne' il primo ne' l'ultimo a definire la vita come uno straordinario viaggio, e non uso il termine "straordinario" a caso. Questo aggettivo non determina necessariamente che il nostro viaggio sia positivamente magnifico a prescindere, semmai è proprio il contrario. Si fa una fatica enorme per sbarcare il lunario e i momenti di vera gioia sono perle che conserviamo gelosamente nella memoria per tutto il resto della vita, così come i dolori più forti. La vita in sostanza è una linea che corre lungo uno zero ideale, una specie di neutrale normalità, la cui regolarità ogni tanto è scossa da momenti segnati da segno positivo contrapposti ad altri di segno opposto e la fatica sta proprio nel cercare di equilibrare le due parti del grafico. Ecco cos'è lo straordinario, è la capacità (e la fortuna) di galleggiare tra emozioni tanto diverse, cercando la luce anche dove non c'è solo per il gusto di non darla vinta all'oscurità. La felicità è una maledetta conquista, una fatica di cui vantarsi, da sparpagliare in giro perchè dal momento che ti si appiccica addosso non riesci a tenerla tutta per te, sei contagioso come il peggiore dei virus e non c'è vaccino che tenga.
Personalmente il senso di positività mi ha beccato negli ultimi anni, da quando la vita mi è cambiata drasticamente e anche in questo caso non sarò ne' il primo ne' l'ultimo che nel cambiamento ha (ri)trovato una forza inattesa, e per forza non intendo necessariamente quella fisica.
Fino a circa cinque anni fa vivevo una vita di "sarebbe bello". Giravo in moto, tanto, andandomi a perdere nei posti più intimi, lontani dalle grandi masse. Accarezzavo luoghi per il piacere di rimanere colpito da qualcosa, qualsiasi cosa sapesse di buono, quei gusti che sembrano appartenere solo ad un passato più o meno recente quando i sapori non erano ingegnerizzati a tavolino. Senza rendermene troppo conto portavo in giro una mente non mia, anzi, non solo mia. Giravo spesso nelle zone in cui vivo adesso, le splendide colline pisane, dove la ruralità la fa da padrona, dove il lavoro dell'uomo si vede sfacciatamente bene, dove certe zone sembrano giardini zen, dove si sente quel sapore buono la cui ricerca mi accompagna da quando ho scoperto da giovincello il motore a scoppio.
Vivevo nel sarebbe bello perchè in qualche modo avrei voluto fare quello che spesso vedevo nel lavoro degli altri, fatto di fatica ma anche di cura verso quello che stavano plasmando. Un campo da arare, alberi da frutto da potare, uva da vendemmiare, prati da falciare e tanto altro ancora. Mi accontentavo di godere di quelle sensazioni rubando pezzi di vita a ignari affaccendati, frammenti che infilavo delicatamente nel bauletto per riportarli a casa e fissarli nella memoria, magari tramite il resoconto di turno da custodire nel blog. La mia forse era una fuga perenne, da un tran tran che teneva acceso quel senso di rimpianto che ti fa sentire sempre in ritardo, una resa verso quello che avrei potuto fare ma che non facevo campando mille scuse, giustificandomi di fronte a me stesso, adagiandomi in quella che gli esperti definiscono comfort zone, sensazioni che sono riuscito a definire solo di recente. Spesso chi randagia a destra e a sinistra è solo in cerca di se stesso, una ricerca spasmodica di un equilibrio disturbato da inspiegabili tensioni, che non riesci a spiegarti perchè non hai gli elementi giusti per farlo. Il fatto è che non te ne rendi conto e allora continui all'infinito.
Poi di colpo succede qualcosa, il tuo equilibrio instabile si rompe e questa nuova dirompente instabilità sarà quella che ti porterà all'equilibrio.
Ho vissuto i miei primi trentanni in casa con genitori, sorella e nonna materna.
Il babbo era un tuttofare, uno che non si arrendeva davanti a niente. Con le mani e con pochi attrezzi (e tante imprecazioni) rimetteva in sesto quasi tutto. Ha perso suo babbo quando era troppo giovane, era il più grande di tre fratelli. Il suo senso di responsabilità e dovere l'ha fatto diventare un uomo prima, un capolavoro di babbo poi. Fino a quando stavo nella mia bella comfort zone avevo timore per qualsiasi cosa potesse intaccare la mia sfera di vetro. Adesso vorrei potergli far vedere tutti i lavori a cui mi dedico, a cui mai a poi mai avrei pensato di impegnarmi solo pochi anni fa, non tanto per il risultato finale, quanto per la voglia di provarci, per non farsi sconfortare da quello che ti si para davanti. Forse adesso mi sento un po' lui, come lui, e questa è la cosa che più mi rende felice e allo stesso tempo è parte della forza che mi da l'entusiasmo di tentare. Ora lo sento vicino, vicinissimo, come se mi sentissi ambasciatore della sua caparbietà nel fare.
Poi ci sono loro, mamma e nonna, che oltre al fare mi hanno passato il dna del sapore buono, quello di una volta. Le loro origini erano contadine e ogni tanto, durante qualche domenica pomeriggio, andavamo a trovare dei parenti che vivevano in una grande casa nella campagna nei pressi di Tavarnelle val di Pesa, di quelle con la stalla al piano terra, la porcilaia, con tutti gli annessi tipici di una vita passata tra campi e bestiame. Ad ogni visita apprezzavo i contrasti che una vita del genere imponeva. Da ospite prendevo ovviamente il meglio, ma sentivo che là c'era il buono, il vero, il prendere o lasciare, senza tanti fronzoli, c'era il saper fare, la pazienza di aspettare, un ritmo faticoso ma più naturale.
Ogni tanto a casa, seduti in cucina, entrambe mi raccontavano la loro vita, fatta di freddo in casa, di grandi camminate per andare da qualsiasi parte per necessità o per diletto, dei lavori agricoli fatti senza tante tecnologie, delle avventure vissute con i vari animali, da cortile o meno che fossero. Guardavo le loro mani, fatte di dita un po' stortignaccole, come (e peggio) di un sigaro toscano che ogni tanto mi concedo, mani che hanno lavorato, contribuendo a plasmare quella dignità che sembra appartenere solo ad un'epoca passata.
Restavo affascinato dai loro racconti, della vita di tutti giorni, delle feste paesane, dei giochi che facevano con niente. Sentivo quel benedetto sapore buono che di fatto si è radicato in me, e che volevo in tutti i modi ritrovare, rivivere.
Fare e sapori buoni, le inspiegabili tensioni.
Poi arriva quel giorno, in cui mi ritrovo a sistemare dei teli sotto ad una manciata di ulivi. E' uno dei tanti lavori più o meno rurali ai quali mi dedico ormai da un po', ma questa per me è la prima volta, a cinquantacinque anni suonati.
Sono all'aria aperta, immerso nelle splendide colline. Gli unici veri rumori sono dati dall'abbacchiatore che scarica gli ulivi dei propri frutti e dalle olive stesse che colpiscono il suolo ammortizzate dai teli, regalando mitragliate di colpi ovattati. In sottofondo le chiacchere di chi, come me, è intento nella raccolta.
Sposta le reti, raccogli le olive nelle ceste, carica le ceste sul carro, riparti, più e più volte. La fatica via via si fa sentire ed è qui che, d'improvviso, sento la loro vicinanza, impegnato a fare qualcosa che faceva parte di quei racconti ascoltati in cucina, a rivivere momenti che (spero) si tramanderanno nei secoli, momenti che uniscono le generazioni al di là delle tecnologie, momenti popolari fatti di condivisione, nella fatica e nell'aiuto. Le menti, quelle che portavo in giro, si sono finalmente ritrovate, manifestandosi in una specie di chiusura del cerchio. C'è del babbo in quel trattore che ha trainato il carro dove stiamo posizionando le cassette colme di olive. Ci ho fatto qualche riparazione, un po' di meccanica, un po' di carpenteria, adattando quello che ho trovato e plasmandolo alla bisogna. Ci ho fatto un po' di lui, con lui, e ora ce l'ho chiaro davanti agli occhi. Le olive, via via che le raccogli, le carichi, le gestisci, ti lasciano nel naso il loro odore, che sa già di frantoio, e te lo porti a casa quando rientri alla sera cotto e dolorante. Mi sento come mamma, come nonna, anche se le loro fatiche sono state ben maggiori. Le sento vicine mentre sono affaccendato nell'oliveta, mi sembra quasi di vederle tra un albero e l'altro mentre scambio qualche chiacchera con chi è presente, mi sembra di averle accanto mentre in cerchio ci sistemiamo alla meglio per divorarci il pranzo al sacco, condendo il tutto con leggerezza e risate.
Ad un certo punto un motociclista passa lungo la strada che rasenta il campo dove stiamo facendo la raccolta. Mi ci sono immedesimato, ripensando a quante volte la situazione è stata inversa, io a girellare placido, gli altri a lavorare mentre ignari mi regalavano tante buone sensazioni.
Nei giorni seguenti sarà un viavai al frantoio, per portare il prezioso carico e per andare a seguire la produzione vera e propria, momenti che ormai fanno parte della sezione cerebrale della "bella memoria".
Il frantoio nei giorni della frangitura è un crocevia, di quelli incasinatissimi di cui vorresti conoscere il progettista per invitarlo a fare due chiacchere amichevoli. E' una bolgia, un mix tra fisicità in quintali e deliri umorali, dove la resa non si riferisce al cedere spontaneo delle tensioni corporee, bensì al senso di frustrazione o alla felicità legata al prodotto che si riporta gelosamente a casa. E allora vai di domande a destra e a manca per capire chi e dove ha avuto più fortuna, in uno svolazzante via vai di foglietti dove vengono annotati pesi lordi, tare e divisioni tra chi ha contribuito. Dal momento che le olive iniziano il loro percorso di trasformazione occorre circa un paio d'ore prima di riporre il prezioso prodotto e ripartire verso casa, due ore passate le quali i timpani ringraziano tanto che una volta usciti si ha come una sensazione di sbandamento, si va via come sull'olio!!
La raccolta va avanti per alcuni fine settimana. Alla sera mi sento distrutto, mi fa male tutto, come vedo il letto entro in letargo. Ma la soddisfazione è immensa, meravigliosa. Finalmente mi sento al centro del sapore buono tanto agognato, facente parte di un modello che sento mio, un vestito che mi calza a pennello ed è come se in questo nuovo cammino mi sentissi accompagnato da chi può vivere solo tramite le mie emozioni. Grazie Mauro, grazie Lina, grazie Ginevra, per il testamento morale che mi avete trasmesso, per quel senso di amorevole forza che forse ho sottovalutato, per quelle radici che mi hanno permesso di apprezzare quello che sono, un regalo che ho finalmente scartato e che mi ha dato la felicità che adesso porto in giro, anche senza moto.
E grazie a Ilaria, che ha contribuito (moltissimo) a rendere reale tutto questo.
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